L'inarrestabile ascesa dei Guns N' Roses vista dall'interno!
A
30 anni dall'uscita di Appetite For Destruction, Paul Elliott (l'unico
giornalista inglese presente al party per il lancio dell'album a L.A.) ricorda
gli episodi vissuti insieme alla band – dal servizio fotografico alla
Hellhouse, alle prime date in Inghilterra, fino al concerto di Dallas con gli
Aerosmith.
Di
Paul Elliott - Teamrock, maggio 2017
Traduzione
IlariaGuns
Fonte TeamRock!
17
marzo 1987. Un giorno bellissimo come un altro a LA. Il sole splendeva, lo smog
sfocava il verde delle Hollywood Hills, il traffico del tardo pomeriggio
risuonava sul Sunset Boulevard.
In
una stanza d'albergo sul Boulevard, c'eravamo io e i cinque membri dei Guns N’
Roses, la nuova band più calda di LA. Seduto sul pavimento con le gambe
incrociate, il cantante Axl Rose, a petto nudo sotto una giacca di pelliccia
ecologica. Accanto a lui, il chitarrista ritmico Izzy Stradlin che tirava fuori
un'altra sigaretta dal pacchetto di Marlboro Lights. Sul letto, il batterista
Steven Adler, il chitarrista solista Slash e il bassista Duff McKagan,
quest'ultimo svegliatosi solo dopo un'ora che intervistavo la band. La stanza
era impregnata di fumo, il pavimento pieno di bottiglia di birra vuote. In un
angolo, il manager della band Alan Niven che supervisionava i suoi ragazzi.
L'album
di debutto dei Guns N’ Roses, Appetite For Destruction, sarebbe uscito
quell'estate per la Geffen, e io mi trovavo a LA per intervistare la band per
la rivista rock britannica Sounds. La sera prima li avevo visti suonare al
leggendario club Whiskey A Go Go, a mezzo chilometro da lì sul Sunset
Boulevard. Il suono era buono, e il look era eccellente. Sicuramente Axl
abbozzava già la sua aura da star. Nonostante tutto, i Guns N’ Roses non mi
convincevano.
Avevo
sentito l'EP Live Like A Suicide, ed era buono, ma nella foto di copertina i
Guns N’ Roses sembravano una delle migliaia di hair metal band di LA. Più tosti
dei Poison, forse, ma questo non diceva molto. Nel corso dell'intervista si
definirono diversi dalle altre band di LA; migliori. Ma ogni rock band lo
diceva. La prova decisiva sarebbe stata l'album.
Slash
tirò fuori un Walkman dal giubbotto di pelle e mi si avvicinò. “Ascolta
questo…”, disse. Mentre il resto della band guardava, mi diede gli auricolari,
alzò il volume al massimo e schiacciò ‘play’. Quello che sentii era un mix di
quella che sarebbe diventata It’s So Easy. Ed era elettrizzante. La furia punk
rock dei Sex Pistols e lo swag degli Aerosmith di Rocks. Roba sporca e cattiva.
La voce di Axl era piena di veleno, e a un certo punto urlava “Why don’t you
just… FUCK OFF!”
Slash
sogghignava quando spense il Walkman. Io gli sorridevo ammutolito. Non riuscivo
a credere a ciò che avevo appena ascoltato. Quell'unica canzone era cento volte
meglio di tutto il loro EP. E se il resto dell'album era uguale, i Guns N’
Roses sarebbero diventati non solo la migliore band di LA – sarebbero diventati
la migliore band del mondo.
“Noi
siamo l'unica vera rock ‘n’ roll band venuta fuori da LA nel giro di dieci
anni”, mi disse Axl quel giorno. “Gli ultimi sono stati i Van Halen”.
E
aveva ragione. Nel 1987 l'hair metal era nel suo periodo di massimo splendore e
LA era la sua casa. I Motley Crue erano i re del Sunset Strip, i Bad Boys di
Hollywood che avevano venduto milioni di dischi. Ma Izzy Stradlin aveva colto
nel segno quando li aveva liquidati come “teen metal” – in pratica, roba per
ragazzini. E lo stesso poteva dirsi dei Poison, i più carini tra i bei ragazzi
di LA. “I Poison ci hanno fottuto tutti quanti!”, diceva amaramente Axl.
“Dicevano che tutti seguivano il loro trend”.
I
Guns N’ Roses ci tenevano a prendere le distanze dall'hair metal. Si sentivano
più vicini ai Metallica, che si erano trasferiti da San Francisco a LA cinque
anni prima perché LA era piena di band che apparivano – e suonavano – come
ragazze. Da fan dei Metallica, Slash aveva detto: “LA è considerata un posto
per gay, e riceviamo un sacco di critiche dalla gente che ci considera dei
poser".
Sapevo
che Slash aveva ragione, perché io ero uno di quelli. Quand'ero entrato al
Whiskey la sera prima, avevo visto un cliché dietro l'altro. Ragazze in
microgonne, tacchi a spillo e top minimali, poco più della lingerie in pratica,
con i capelli cotonati come le comparse di Dynasty. Le acconciature dei ragazzi
non erano tanto diverse, e alcuni di loro – i ‘chicks with dicks’ li definivano
– erano più truccati delle ragazze. Così era composto il pubblico di LA, e i
Guns N’ Roses erano i loro nuovi prediletti.
Il
Whiskey aveva una storia gloriosa. Aveva ospitato così tante esibizioni
leggendarie, dai Doors e i Led Zeppelin, ai Van Halen e i Ramones. Ma io non
andai in quel locale convinto di vedere il futuro del rock ‘n’ roll. In verità,
ero più interessato all'altra band che avrei intervistato pochi giorni dopo:
gli Slayer, che avevano appena pubblicato il meraviglioso Reign In Blood.
Finalmente c'era una band a LA che faceva la differenza. Sicuramente i Guns N’
Roses non avrebbero potuto competere, giusto?
Quella
sera il gruppo di supporto erano i Jet Boy. Alla voce, il carismatico Mickey
Finn, che aveva un esagerato taglio alla moicana blu elettrico. Al basso, l'ex
Hanoi Rocks Sam Yaffa, che pareva perso su quel palco, come se lo scioglimento
degli Hanoi – a seguito della perdita del batterista Razzle – gli avesse
portato via la gioia di vivere.
I
Guns N’ Roses idolatravano gli Hanoi –
cosa ovvia già dalla prima canzone proposta, Reckless Life, un rock ‘n’ roll
veloce con sfumature punk/glam puramente Hanoi… tranne che per un dettaglio
fondamentale. Mentre Michael Monroe cantava con quel sogghigno punk sarcastico,
Axl Rose era più heavy metal, era un vero e proprio urlatore. E aveva
quell'intensità che Monroe non ha mai avuto. Entrambi avevano quella bellezza
femminea, ma Axl aveva anche un'aura minacciosa: era il tipo di ragazzo che ti
metteva al tappeto anche solo con uno sguardo. A petto nudo, le braccia
ricoperte di tatuaggi, la pelle quasi traslucida sotto le luci del palco, i
capelli cotonati all'eccesso, Axl era magnetico, attirava tutti gli sguardi su
di sé.
Slash
era il suo contraltare perfetto. Il volto nascosto dai riccioli scuri, la
sigaretta in bocca, riusciva ad apparire straordinario senza fare il minimo
sforzo. Izzy era il Keith Richards dei GN’R, freddo e indifferente. Duff
McKagan era il punk rocker, alto e magro, come dovrebbero essere i bassisti.
Steven Adler sembrava il classico ragazzotto da spiaggia: tanti capelli biondi,
petto villoso, poteva passare per il fratello minore di David Lee Roth. Ed era
l'unico che sorrideva.
I
Guns N’ Roses facevano sul serio. Questo era chiaro. La musica era dura, il
look era giusto, e le canzoni del nuovo album proposte quella sera – Welcome To
The Jungle, It’s So Easy, Nightrain – facevano dimenticare tutto il repertorio
dei vari Motley Crue o Poison.
Dopo
lo show, un rappresentante della Geffen mi disse che secondo lui i Guns N’
Roses avevano il potenziale per diventare la più grande band al mondo. Mi venne
in mente una cosa che mi aveva detto l'addetta stampa inglese della band prima
che volassi a LA. “Ce la faranno a sfondare. Se sopravvivono”. Certo, i GN’R
avevano una reputazione pesante. Xavier Russell [nella sua recensione al primo
show inglese della band, ndt] li aveva soprannominati Lines N’ Noses [strisce e
nasi], e ovunque si vociferava che almeno tre dei cinque membri della band
fossero dipendenti dall'eroina. La domanda da farsi non era se i Guns N’ Roses
potessero essere all'altezza delle aspettative. Piuttosto, sopravvivranno
abbastanza per essere all'altezza delle aspettative?
“L'unico
motivo per cui ci danno dei ‘ragazzacci’ è perché quelli delle altre band di LA
sono tutti degli sfigati”, disse Slash quando gli feci presente che i GN’R
erano semplicemente gli ultimi di un lungo elenco di rock band californiane
problematiche. Slash era ubriaco e di umore bellicoso. Dopotutto aveva passato
la giornata a bere. Ubriacarsi, disse, era l'unico modo per farsi passare un
hangover. E dopo lo show al Whiskey, aveva tirato le ore piccole facendo festa.
Avevo
incontrato la band verso mezzogiorno all'Hyatt House sul Sunset Boulevard.
L'hotel era uno dei tanti covi dei rocker di LA – il batterista dei Led
Zeppelin John Bonham aveva attraversato in moto i suoi corridoi, facendo
guadagnare alla struttura il nome di Riot House; la piscina sul tetto, poi, era
diventata famosa per aver ospitato il party di fine tour in This Is Spinal Tap.
I
ragazzi erano al ristorante al piano terra dell'Hyatt. Non fu difficile trovare
il loro tavolo: era quello pieno di capelloni che bevevano una birra dietro
l'altra e fumavano una sigaretta dietro l'altra, infastidendo gli altri
avventori con il loro casino. Tutti i membri della band indossavano occhiali da
sole per nascondere gli occhi annebbiati dal sole di mezzogiorno.
Izzy
Stradlin era il più loquace dei cinque. Era veramente interessato a sapere
tutto sulle novità della scena musicale britannica. Alan Niven rivelò il suo
progetto di portare la band in Inghilterra quel giugno per tre show al Marquee
di Londra. Niven sentiva che i GN’R avrebbero potuto avere un impatto immediato
sulla reattiva scena musicale britannica: un presentimento che si sarebbe
rivelato un colpo da maestro.
Nel
frattempo, Axl Rose ascoltava attento ma parlava poco, impassibile dietro i
suoi occhiali a specchio. Quando parlò, la sua voce si rivelò sorprendentemente
baritonale, molto diversa da quella stridula che usava sul palco. Scelse le sue
parole accuratamente; si vedeva che era molto più sobrio degli altri. Axl, a
quanto pare, non era un tipo che si perdeva in chiacchiere.
Dopo
un'ora, si decise che avrei intervistato la band nella mia camera al Park
Sunset, l'hotel proprio dall'altra parte della strada. L'atmosfera sarebbe
stata sicuramente tranquilla – i cinque membri della band, più Niven e io,
tutti stretti nella stanzetta di un hotel budget.
Più
l'intervista andava avanti, più era chiaro chi teneva le redini della
conversazione. Axl era il portavoce della band. Slash e Izzy dicevano il loro.
Steven, come molti batteristi, aveva meno da dire. E Duff, da bravo alcolizzato
quale era, si era addormentato.
Axl
iniziò raccontando come lui e l'amico d'infanzia Izzy fossero andati a LA
dall'Indiana per formare una band. “La gente ci diceva ‘Voi ragazzi dovreste
andare in California’. E quando arrivammo qui, scoprimmo che eravamo in ritardo
di cinque anni coi tempi. Tu arrivi e pensi di poterti inserire, e invece ti
dicono 'Ma da dove arriva questo?’”
Gli
chiesi se LA fosse meglio dell'Indiana. Izzy: “Deve esserlo, visto che sono
ancora qui!”
“Successero
un sacco di casini in Indiana”, continuò Axl. “Mi buttarono in prigione più di
venti volte, cinque delle quali ero colpevole. Di cosa? Avevo bevuto a un
party, ed ero minorenne. Le altre volte che mi presero era perché gli sbirri mi
odiavano. Insomma, non amo molto quel dannato posto!”
Né
amava particolarmente la sua città adottiva: sosteneva che avrebbe lasciato LA
non appena la band avesse completato il
suo primo tour mondiale. “La scena di LA è morta, e il motivo siamo noi. Per
aprire gli show ci siamo portati dietro band come LA Guns e Faster Pussycat, e
diciamo che la scena si è creata così. A un certo punto abbiamo smesso di fare
concerti per lavorare al disco, e le altre band hanno iniziato a suonare da
headliner, ma ho notato che non c'era lo stesso spirito di collaborazione. Noi
abbiamo sempre cercato di aiutare gli altri, perché personalmente ci tengo che
la scena sia grandiosa. Voglio poter accendere la radio senza essere schifato
da quello che ascolto”.
Slash
non aveva tempo per la altre band di LA: “Il solo pensiero della scena di LA mi
fa vomitare”. Steven aggiunse: “A LA ci sono un milione di persone che pensano
di essere musicisti ma solo pochi lo sono”. Axl aggiunse ridendo:
"Conosciamo un tipo che frequenta il Rainbow da circa quattro anni, e dice
alle ragazze che suona in questa e in quella band, quando in realtà non è
neanche capace di suonare!”
Chiesi
ai ragazzi come sopravvivevano prima di firmare per la Geffen. “Vendevamo
droga, vendevamo ragazze”, disse Izzy. “Organizzavamo feste, e mentre uno di
noi teneva impegnata una ragazza, gli altri le frugavano nella borsetta”. Al
che, Slash aggiunse maliziosamente: “Non voglio sembrare sessista, ma è
incredibile quanti abusi sopportano le ragazze!”
Slash
sorrideva mentre lo diceva, Izzy invece no quando parlava di vendere droga.
Chiaramente, i Guns N’ Roses gioivano della loro cattiva reputazione. Gli dissi
che qualcuno alla Geffen mi aveva detto che i Guns N’ Roses “prendevano tutto”.
Inizialmente scoppiarono a ridere. “Stavamo giusto per chiederti di questo
letto…”, scherzò Steven. Poi il silenzio… e poi un fruscio dall'angolo della
stanza, dove Alan Niven aveva in mano una copia dell'LA Times. Scosse di nuovo
il giornale e Axl chiuse rapidamente il discorso droga. “Sì, prendiamo tutto –
in tutti i sensi. Prendiamo tutto da ciò che sentiamo, da ciò che vediamo e
facciamo…”
Niven
gli stava veramente mandando un messaggio in codice? Non lo ammise mai. Ma Axl
era senz'altro un tipo astuto, e in quell'intervista si dimostrò più sveglio di
tanti cantanti rock. Ciò che mi sorprese fu la sua apertura mentale in fatto di
musica. Citò gli Aerosmith quali modello dei GN’R: “Credo che la rock band più
dura mai uscita dall'America siano gli Aerosmith. Ciò che ho sempre apprezzato
di loro è che non sono i tipi che vorresti incontrare in un vicolo dopo una
discussione. Ho sempre voluto avere la loro stessa attitudine. Cazzo, sono
stati gli unici modelli venuti fuori dall'America!”
Allo
stesso tempo, disse: “L'anno scorso ho speso più di 1.300 dollari in cassette,
di tutto, dagli Slayer agli Wham!, per ascoltare la voce, la produzione, le
melodie...” Pochi rocker avrebbero ammesso di aver comprato un album degli
Wham!. Allo stesso modo, alla fine degli anni '80, pochi apprezzavano i Lynyrd
Skynyrd: Axl era uno di quelli. Li considerava un'ispirazione per Sweet Child
O’ Mine: “In Indiana, i Lynyrd Skynyrd sono una divinità, tanto che arrivavi al
punto di odiarli! Eppure per Sweet Child sono andato a riprendere qualche loro
vecchio nastro, per essere sicuro di riprodurre quelle sensazioni genuine e
domestiche”.
La
cosa più sorprendente fu la dichiarazione di Axl sulle intenzioni della band:
“Abbiamo già programmato le nostre prossime mosse, sai, in che modo ci
evolveremo. Questo disco sarà una vetrina”.
Sembrava
un progetto per la dominazione del mondo. E quando Slash mi fece sentire It’s
So Easy, cominciai a crederci.
Erano
circa le 3 del pomeriggio seguente quando io e il fotografo di Sounds, Greg
Freeman, arrivammo all'abitazione condivisa dalla band, soprannominata
affettuosamente ‘Hellhouse’. Una casetta su due livelli in una strada
tranquilla vicino al trafficatissimo Santa Monica Boulevard, che aveva visto
certo tempi migliori: la vernice bianca sui pannelli in legno delle pareti si
stava sfaldando; il prato era completamente appassito, e non c'era da
stupirsene, visto che diverse macchine ci parcheggiavano sopra.
Duff
e Slash erano seduti sul portico a bere birra. Avevano avuto un'altra nottata
pesante. Così pesante che alla fine erano stati buttati fuori dal Cathouse, il
rock club più importante di Hollywood, dopo aver distrutto la sala biliardo.
Colpa del Jim Beam, disse Slash.
Pochi
minuti dopo, anche il resto della band uscì dalla casa. Axl era tutto vestito
di pelle nera, giubbotto, pantaloni e il cappello con la visiera, più gli
immancabili stivali pitonati. Si mise in posa per le foto sull'Harley Davidson
customizzata del roadie Todd Crew, prima di riunire il resto della band per
degli scatti di gruppo (uno dei quali sarebbe poi finito nel booklet di
Appetite For Destruction). E mentre la macchina fotografica scattava, un enorme
stereo riproduceva il nastro dell'intero album a un volume assordante. Ogni
pezzo era una bomba: chiaramente, con It’s So Easy non si era trattato di un
caso.
Dopo
circa mezz'ora dall'inizio della photosession, arrivò la polizia. Tre macchine
accostarono al lato opposto della strada. Scese solo un agente, che si avvicinò
lentamente alla casa chiedendo con un sorriso ironico: “Dov'è la festa?” Duff
rispose fiacco: “Siamo rimasti senza birra”. Il poliziotto disse che avevano
ricevuto lamentele da un vicino per il chiasso, e ci avvertì che sarebbero tornati
dopo 20 minuti. Mentre si riavvicinava all'auto, Axl gli chiese: “Hey, cosa ne
dici se facciamo qualche foto sulla macchina?” Il poliziotto disse di sì e la
band fece la foto sul cofano della macchina. “Questo è già il terzo gruppo di
fila di poliziotti tranquilli”, mi disse Axl con un gran sorriso.
I
poliziotti non erano ancora tornati quando, un'ora dopo, lasciammo la
Hellhouse. Sentivo però che sarebbero tornati presto. I vicini comunque non
furono costretti a sopportarli ancora a lungo. Un paio di settimane dopo, i
Guns N’ Roses si erano trasferiti. E per i due anni successivi, sarebbero
sempre stati in viaggio, in giro per il mondo in tour a scatenare l'inferno.
Prima fermata: Londra.
La
reputazione dei Guns N’ Roses li precedeva. Il 6 giugno 1987, il Daily Star
avvisava dell'arrivo imminente dei “rocker ubriaconi” e soprannominava Axl un
“killer di cani”! “I barboncini mi fanno schifo”, aveva dichiarato ironicamente
Axl. “Tutto di loro mi fa venire voglia di ucciderli”. Ma quelli dello Star si
erano persi per strada la battuta.
Il
giornale parlava anche di un raid della polizia al "sordido
nascondiglio" della band (la Hellhouse), trasformatosi in una “feroce
battaglia” che aveva spedito il cantante in terapia intensiva per tre giorni.
C'era del vero in quella storia, come lo stesso Axl aveva ammesso: “Un
poliziotto mi colpì in testa e credo di essere svenuto. Due giorni dopo mi
svegliai in ospedale attaccato agli elettrodi”.
Chiaramente,
non tutti i poliziotti di LA erano “tranquilli” con Axl. Il cantante preferiva
l'approccio morbido dei bobby inglesi, che aveva incontrato il 18 giugno, la
sera prima dello show di debutto della band in Inghilterra al Marquee. Axl era
andato al Tower Records di Piccadilly Circus con Alan Niven e Tom Zutaut. Dopo
aver comprato un album degli Eagles, Axl era seduto su una scalinata a
riprendersi dal jet-lag, quando fu tirato in piedi da due membri del servizio
di sicurezza del negozio. Seguirono gli inevitabili spintoni e urla fino
all'arrivo della polizia. Con grande sorpresa di Axl, quando Niven disse a uno
dei poliziotti “Toglimi le mani di dosso”, loro lo fecero. “A LA non ti danno
mica retta”, disse Axl ridendo. “Ti puntano una pistola alla testa!”
I
Guns N’ Roses, e Axl in particolare, sembravano attirare i problemi ovunque
andassero. E non andò diversamente a quel primo show al Marquee. La band era
entusiasta di suonare in Inghilterra, patria di tante delle loro band
preferite: i Rolling Stones, i Queen, i Sex Pistols, i Led Zeppelin. Niven gli
aveva raccontato tutto del Marquee, un club con una storia ricca come quella
del Whiskey. Ma quella sera non tutti nel pubblico erano pronti ad accogliere i
Guns N’ Roses a braccia aperte. Per un paio di rock band locali che
consideravano il Marquee il loro territorio, questi cazzoni americani pieni di
sé meritavano di essere rimessi al loro posto.
Dopo
aver aperto con Reckless Life e un pezzo del nuovo album, intitolato
appropriatamente Out Ta Get Me, i GN’R si ritrovarono sotto una grandinata di
bicchieri di plastica e una pioggia di sputi. Ricordo lo schifo e l'imbarazzo
che avevo provato per Izzy quando un grosso grumo di muco gli era rimasto
appiccicato tra i capelli. Axl proprio non ci stava. “Hey, se continuate a
lanciarci cose, noi ce ne andiamo!” La risposta fu un coro di fischi, ma alla
fine della terza canzone, You’re Crazy, la resistenza era finita. I Guns N’
Roses avevano superato il test.
Il
cantante dei Cult Ian Astbury rimase talmente colpito che dopo lo show andò nel
backstage e invitò i GN’R in tour con la sua band in America. Ma l'entusiasmo
di Astbury non era condiviso dal giornalista di Sounds Andy Hurt. Quando Axl
lesse la recensione – in cui il suo modo di cantare veniva paragonato alle urla
di un criceto con le palle incastrate in una porta – era furibondo, e andò con
la band al completo negli uffici di Sounds a Mornington Crescent, a nord di
Londra. “Andy Hurt?” [ndt, hurt vuol dire anche ferito, sofferente] “Lo sarà di
certo se lo trovo!” Ma il recensore non era presente, così Axl dovette
limitarsi a lasciare un messaggio di avvertimento a un altro membro dello
staff. Poi la band si ritirò in un vicino pub. Leggendo il menù, notarono un
piatto che li lasciò perplessi. Pochi giorni dopo, quando andai a trovare la
band all'appartamento che avevano preso in affitto a Kensington, Axl mi chiese:
“Che cazzo è uno Spotted Dick?” [ndt, un tipo di pudding da sempre fonte di
esilaranti doppi sensi]. La sua confusione era comprensibile. Evitai di
parlargli delle Faggots [ndt, una specie di polpette inglesi; in inglese
americano, come ben sapete, vuol dire tutt'altro]: Axl avrebbe approfondito il
concetto più avanti, nella controversa canzone One In A Million.
Ero
già in possesso di un advance tape dell'album, ma in quell'appartamento di
Kensington ascoltai la versione demo di una canzone che era stata eliminata. La
traccia era solo strumentale: mentre me la facevano sentire, Izzy e Steven
cantavano le parti vocali. Uno dei versi sarebbe apparso alla fine dei crediti
dell'album: “With your bitch slap rappin’ and your cocaine tongue you get
nothin’ done”. E quella canzone, You Could Be Mine, sarebbe poi apparsa su Use
Your Illusion II nel 1991.
I
Guns N’ Roses lasciarono Londra alla volta di LA alla fine di giugno dopo il
terzo e ultimo show al Marquee il 28. La strategia di Alan Niven aveva avuto
successo: i Guns N’ Roses erano sulla bocca di tutti i fan e i critici in tutta
l'Inghilterra. E quando alla fine Appetite For Destruction fu pubblicato, il 21
luglio, fu subito accolto come un classico.
Una
memorabile recensione lo aveva definito “più grezzo e scorticato delle cosce di
una puttana”: Appetite era semplicemente il miglior album hard rock dai tempi
di Back In Black degli AC/DC. Sembrava poi che gli adesivi ‘parental advisory’
fossero stati inventati appositamente per questo disco. Nove delle 12 canzoni
facevano espliciti riferimenti al sesso; quattro alla droga; quattro all'alcol;
tre alle risse.
Appetite
era rumoroso, volgare, offensivo – e non si vergognava di esserlo. Ma,
soprattutto, non era unidimensionale. A LA, Axl mi aveva detto: “Canto in
cinque o sei tonalità differenti, perciò non c'è una canzone simile all'altra”.
E che estensione che aveva! Si lamentava come una sirena della polizia
nell'intro di Welcome To The Jungle, blaterava in slang su Mr. Brownstone,
perdeva le staffe in You’re Crazy, e rivelava una dolce vulnerabilità per Sweet
Child O’ Mine. Axl non ha sbagliato un colpo su quel disco, nemmeno la minima
improvvisazione. “Axl sapeva quello che voleva”, aveva detto il produttore
dell'album, Mike Clink. “Era una cosa istintiva”.
Lo
stesso Clink era in un certo senso l'eroe dimenticato di Appetite For
Destruction. Come dichiarò Alan Niven anni dopo, “Non riesco a immaginarmi un
altro essere umano che potesse avere la pazienza di completare quel disco. I
ragazzi della band erano così fottuti che facevano sembrare i New York Dolls
ambiziosi quanto i Bon Jovi!” Clink, che in precedenza aveva lavorato tra le
altre cose a Eye Of The Tiger dei Survivor, disse semplicemente: “Li ho spinti
a lavorare veramente duro. Avevo una sola regola: niente alcol e niente droga
in studio. E se hanno mai usato droghe lì dentro, io non me ne sono mai
accorto”.
Alan
Niven aveva aspettative modeste per l'album. “Ero sicuro che se fossero
riusciti a mantenere la disciplina, potevamo arrivare al disco d'oro”. In
America, questo significa vendere mezzo milione di copie. Mike Clink era un po'
più fiducioso. Sapeva che Sweet Child O’ Mine sarebbe stata l'arma segreta dei
Guns N’ Roses: una potenziale hit. “Era magica. Mi faceva rizzare i peli sulle
braccia”. Disse a Tom Zutaut che Appetite avrebbe venduto due milioni di copie.
Zutaut non era d'accordo: lui predisse cinque milioni.
Le
vendite inizialmente andarono comunque a rilento. Erano state vendute solo
10.000 copie dell'album in Inghilterra quando i Guns N’ Roses tornarono
nell'ottobre 1987 per cinque date in teatri da 2.000/3.000 persone. Fu una
mossa coraggiosa, ma erano stati costretti a farla. Inizialmente avrebbero
dovuto supportare gli Aerosmith in Inghilterra: erano stati venduti migliaia di
biglietti. Ma gli Aerosmith dovettero cancellare quando l'album Permanent
Vacation prese il volo negli Stati Uniti.
I
Guns arrivarono in Inghilterra con gli altri sleaze rocker losangelini Faster
Pussycat come supporto. Andai fino alla fredda e piovosa Manchester per la loro
serata di debutto all'Apollo. Presenti solo un migliaio di persone. La
balconata era completamente vuota. Ma non importava. I GN’R suonarono un set
brillante – iniziando con It’s So Easy – e dopo, nel backstage, erano di ottimo
umore. Axl mi mostrò un souvenir che gli aveva dato un fan arrivato addirittura
dalla Scozia per il concerto. Si trattava di un biglietto per uno show che non
fu mai suonato: Aerosmith più Guns N’ Roses alla Playhouse di Edimburgo.
Il
tour si concluse con una data quasi sold out all'Hammersmith Odeon di Londra,
durante la quale Axl parlò a lungo di un amico della band che era appena venuto
a mancare, a New York – il loro roadie Todd Crew. Todd era con loro durante il
primo tour in Inghilterra, ma aveva passato l'intera prima data al Marquee
svenuto a causa del troppo alcol. Era morto per overdose di eroina. La band
suonò in sua memoria Knockin’ On Heaven’s Door di Bob Dylan.
L'eroina
era un'ombra che aleggiava ovunque su Appetite For Destruction. In My Michelle,
la storia dell'amica di Axl Michelle Young, la cui madre era morta da tossica.
In Mr. Brownstone, canzone che prendeva il nome da un famigerato spacciatore di
LA. E in Paradise City, che un 19enne Duff McKagan aveva scritto quando viveva
a Seattle con una fidanzata tossica e sognava di scappare a LA. “Ovviamente,
quando arrivai lì”, osservò ironicamente il bassista, “la band a cui mi unii
finì per avere tre tossicodipendenti tra i membri!” Ma neanche la morte di un
caro amico come Todd Crew fu abbastanza per far capire loro che dovevano
ripulirsi. Come Duff avrebbe in seguito dichiarato, “Slash e Izzy e Steven
erano completamente fuori di testa”.
E
le loro condizioni non sarebbero di certo migliorate visti i successivi impegni
della band: un tour negli Stati Uniti in novembre di supporto ai Motley Crue,
il cui leader Nikki Sixx era anch'egli un tossico in piena regola. Mettere
insieme Crue e GN’R sembrava la ricetta per un disastro, ma, miracolosamente,
sopravvissero tutti – Sixx andò in overdose e ci mancò poco che morisse a un
party a LA solo pochi giorni dopo che il tour era finito. Slash era con Sixx a
quel party, ma sostenne che “Non sapevo che Nikki era andato in overdose – ero
ubriaco e svenuto nella vasca da bagno”.
Di
lì a poco, Slash fu spedito in riabilitazione alle Hawaii. In seguito mi
avrebbe detto: “Trascorsi otto giorni all'inferno!” Ma ci vollero altri due
anni prima che Slash affrontasse la verità sull'eroina, quando cioè Steven
Adler, il suo amico d'infanzia, pagò pegno per la sua dipendenza perdendo il
posto di batterista e tutti i sogni che accompagnavano quel lavoro.
Nel
febbraio 1988, i Guns N’ Roses erano di nuovo in tour, da headliner nei teatri
americani. Ma quando venne cancellato uno show a Phoenix, Arizona, subito si
iniziò a mormorare di uno split nella band. A quanto pare, Axl non si era
presentato per il concerto, e quando poi si era fatto vedere, 24 ore dopo, il
resto della band gli aveva detto che era licenziato. Il cantante fu riammesso
soltanto tre giorni dopo, grazie alla mediazione di Slash e Izzy.
Stando
alle voci, i Guns N’ Roses erano quasi implosi proprio mentre stavano per fare
il botto. Grazie ai numerosi tour e al grande supporto di MTV, negli Stati
Uniti Appetite prese il volo nella classifica di Billboard. Nel maggio 1988,
quando la band supportò gli Iron Maiden in Nordamerica, l'album era già disco
d'oro, superando le previsioni di Alan Niven. In giugno era nella top ten. E in
luglio, esattamente un anno dopo l'uscita, Appetite For Destruction era il
disco numero uno in America. Il fatto che avesse spodestato dalla vetta Tracy
Chapman – cantautrice politicamente corretta – rese il tutto ancora più dolce.
Il
23 luglio, a nove mesi dal nostro ultimo incontro, raggiunsi la band che era in
tour a Dallas, Texas, di supporto agli Aerosmith. Finalmente quell'accoppiata
da sogno era realtà, anche se solo in America e non nella povera vecchia Inghilterra.
Dovevo scrivere una storia di copertina per Sounds in corrispondenza
dell'apparizione dei GN’R al Monsters Of Rock di Donington il 30 agosto.
La
band alloggiava al lussuoso Four Seasons, un hotel cinque stelle che aveva
addirittura un campo da golf privato. Trovai Izzy e il tour manager Doug
Goldstein al bar, in cerca di rifugio dalla temperatura esterna che nel tardo
pomeriggio sfiorava i 38 gradi. Goldstein si lamentava per la sua partita di
golf di quella mattina, disturbata da Steven e Duff che avevano requisito due
cart per fare una gara sul campo da golf: “Cazzo, sembravano i Banana Splits
[ndt, i personaggi di Hanna & Barbera]!"
Izzy
mi chiese in che stanza alloggiavo, così da poter organizzare poi
un'intervista, e rimase scioccato quando gli risposi che dormivo in un altro
hotel, uno economico, a qualche chilometro di distanza. Maledì la casa
discografica e disse che avrebbe pagato lui stesso una stanza per me al Four
Seasons. Gli dissi di non preoccuparsi, ma fu comunque un gesto gentile. Izzy
veniva spesso dipinto come un personaggio scontroso, quando in realtà era
semplicemente più introverso degli altri.
Chiesi
a Goldstein quando avrei potuto parlare con Axl. Goldstein non ne era sicuro.
Mi disse che Axl stava “riposando”.
Quella
sera, Izzy portò la sua ragazza inglese, Emma, a vedere un concerto di Rod
Stewart nella stessa struttura dove avrebbero suonato Guns e Aerosmith la sera
successiva: lo Starplex, un anfiteatro all'aperto da 20.000 posti. “È stato
davvero rilassante”, mi disse il giorno dopo, “come prendersi un Quaalude”.
Tutti gli altri andarono in un rock club a festeggiare il 23esimo compleanno di
Slash: insomma, tutti eccetto Axl, che nessuno aveva più visto sin dall'arrivo
a Dallas. Era forse malato? Goldstein disse di no. Farà l'intervista con me?
“Domani”, disse Goldstein.
All'interno
del club era stata allestita un'area VIP riservata alla band e all'entourage,
20 o 30 persone, tra i quali groupie e leccapiedi. Feci una lunga e alcolica
chiacchierata con Steven Adler e il bassista dei Megadeth Dave ‘Jr.’ Ellefson
che si concluse quando Adler se ne andò con una ragazza nel bagno degli uomini.
Lui e molti altri fecero avanti e indietro da lì per tutta la sera.
Tornati
al Four Seasons a tarda notte, Duff invitò me e il fotografo Ian Tilton in
camera sua. Duff si era sposato da poco con l'aspirante musicista Mandy Brix, e
si sentiva un po' solo. Preparò tre tumbler di vodka a cui aggiunse una
spruzzata di succo d'arancia. Poi il telefono squillò. Era Slash, che ci
invitava in camera sua. Portammo i drink con noi. Slash ci aprì la porta,
ubriaco fradicio e con addosso soltanto un asciugamano legato in vita. Ci
invitò a entrare in camera, dove sdraiata sul letto c'era una ragazza
completamente nuda, che farfugliò un “Grazie per essere venuti, ragazzi!”
Persino Duff non sapeva da che parte guardare. Uscimmo da lì il più in fretta
possibile… non prima che Ian avesse scattato qualche foto alla coppia felice.
Il
pomeriggio seguente eravamo di nuovo al Four Seasons, per andare al luogo del
concerto insieme alla band. Eravamo seduti sul tour bus da qualche minuto e
chiesi se stavamo forse aspettando Axl. Izzy scosse la testa. Axl, disse,
sarebbe arrivato più tardi. L'hangover generale aveva reso l'atmosfera sul tour
bus un po' sottotono. Il mood cambiò al soundcheck. Provarono qualche vecchio
pezzo degli Stones, e Duff – in pantaloncini e stivali da cowboy – si provò il
nuovo Stetson di Ian. Gli piacque così tanto che gli chiese di poterlo
indossare durante lo show.
Dopo
il soundcheck, ancora nessun segno di Axl. Nessuno – né Goldstein, né la band –
sembrava preoccuparsene. Ma a me pareva strano. Sin da quel nostro primo
incontro, i Guns N’ Roses sembravano e si comportavano come una gang. Avevano
quella mentalità del tipo ‘noi contro il mondo’. Ma adesso Axl aveva un
programma diverso rispetto agli altri. Forse stava davvero riposando, come
aveva detto Goldstein. Ma, dopo quelle voci a proposito del suo licenziamento a
Phoenix, la situazione non sembrava delle migliori.
Appena
90 minuti prima dello show, intervistai Izzy e Slash in un grande e squallido
spogliatoio nel backstage. Slash era felicissimo per il fenomenale successo
della band. “È qualcosa che va assolutamente contro l'industria musicale”,
disse orgogliosamente. “È piuttosto ovvio a che cosa aspiri quest'industria
negli anni '80: cerca di lustrare tutto quanto. Tutto assomiglia al techno-pop,
persino la roba heavy metal. Noi andiamo contro ogni standard di questa
industria. Anche quando suoniamo davanti a 20.000 persone, restiamo una band da
club. Facciamo tutto quello che ci sentiamo di fare. Le cose stanno così. E se
la gente arriva aspettandosi di ascoltare una hit dopo l'altra, beh, si sbaglia
di grosso”.
In
quel tour, tuttavia, i GN’R dovettero rispettare alcune regole. Gli Aerosmith,
in passato la band più rovinata d'America, erano diventati astemi e drug-free.
Per cercare di mantenerli puliti, il manager Tim Collins aveva steso un
contratto che proibiva ai Guns N’ Roses di bere alcolici fuori dai propri
camerini. I GN’R onorarono il contratto per rispetto verso i loro eroi.
“L'atmosfera tra le due band è magnifica”, disse Slash sorridendo. “Quei
ragazzi ne hanno passate tante e noi li rispettiamo moltissimo. Siamo cresciuti
ascoltando la loro musica, loro e gli Stones e gli AC/DC, è tutto questo in
pratica ciò che ci ha formati. La cosa strana? Non si fanno più, e della droga
gli piace solamente parlarne. Gli piace sapere che cosa hai fatto la sera prima
e quanto ti sei devastato”.
Izzy
aggiunse ridendo: “Arrivi al concerto a volte e li vedi e pensi 'oh cazzo!'
Stanno mangiando anguria e bevendo tè e ti dicono ‘Cavolo, sono sveglio dalle
nove di stamattina’, e tu gli dici ‘Ma che droga vi fate?’, e loro ‘No, sono
semplicemente in piedi dalle nove!”
Gli
dissi che poca gente avrebbe creduto che i Guns N’ Roses sarebbero
sopravvissuti a un tour di 14 mesi come invece hanno fatto. Izzy sbuffò, “Si
aspettavano che saremmo durati meno di una settimana! I tour comunque non sono
un problema. Se ti tiri storto nel backstage, il tour bus è comunque a pochi
metri di distanza; certo, se lo fai tutte le sere, poi cominci a
trascinarti...”
Ovviamente
gli dovevo chiedere di Axl. Ero stato con la band per 24 ore e non l'avevo
ancora visto. Slash si mise subito sulla difensiva: “Devi capire che con noi si
finisce sempre in mezzo agli eccessi. Axl sa che per conservare la voce deve
stare lontano dal fumo, dall'alcol e dalla droga. Non esce spesso perché
l'atmosfera che si crea con gli altri quattro della band è piuttosto, mmm...”
Izzy
finì la frase: “...tendente alla devastazione”.
“Axl
se ne sta per conto suo”, continuò Slash. “Prende tutto molto seriamente. Sta
riuscendo a mantenere un certo livello di sanità mentale, considerato che non
può andarsene in giro dato il suo ruolo nella band. Se facesse tutto quello che
facciamo noi, non sarebbe neanche in grado di cantare!”
Quando
accennai alle voci sul licenziamento di Axl a Phoenix, Slash rispose come un
politico navigato: “Ecco una storia che è diventata più grande di noi”,
sospirò. “È una storia del passato e non vale la pena parlarne perché non
riguarda il presente".
Tornammo
nei camerini, dove Steven stava bevendo fiale di pappa reale: “Aiuta a produrre
più sperma!” spiegò. Alquanto in ritardo, Doug Goldstein portò a Slash una
torta di compleanno con una glassatura rosa che diceva ‘HAPPY FUCKIN’ BIRTHDAY,
YOU FUCKER’ [buon compleanno, cazzone]. Sopra la torta era stato infilato anche
un pacchetto di Marlboro rosse, le sue preferite.
20
minuti prima dello show, mentre Slash e Izzy stavano jammando con le chitarre
acustiche, e Steven batteva con le bacchette sullo schienale di una sedia,
finalmente arrivò Axl. Salutò a malapena gli altri membri della band prima di
scomparire dietro i flight case sistemati nell'angolo della stanza. Nascosto
alla vista, Axl procedette con il suo rituale di preparazione al concerto,
cantando a squarciagola The Needle Lies, una traccia del concept album
Operation: Mindcrime dei Queensryche. Il significato insito nel titolo della
canzone era chiaro a tutti [ndt, l'ago mente].
Axl
riemerse dal suo nascondiglio proprio mentre il cantante degli Aerosmith Steven
Tyler entrava nella stanza, generando il panico perché tutti quelli che avevano
una birra in mano cercarono di nasconderla. Tyler sembrava non essersene
neanche accorto: voleva solo congratularsi con i GN’R per il loro album primo
in classifica. Li abbracciò tutti e se ne andò. Axl scomparve di nuovo per
andare a togliersi jeans e t-shirt e mettersi la sua divisa da palcoscenico:
chaps e sospensorio di pelle, giacca pitonata e cappello a tesa larga di pelle.
Sembrò
sorpreso quando mi vide. Si avvicinò, con i braccialetti e gli speroni che
tintinnavano, e parlammo per qualche minuto. Non c'era tempo per un'intervista
in piena regola. Gli dissi quello che Slash e Izzy avevano detto di lui poco
prima, e lui ne parve soddisfatto. Sembrava distratto, cosa che attribuii al
nervosismo pre concerto. Ma anche quando era in posa con la band per Ian
Tilton, sembrava distaccato dal resto del gruppo. La dinamica tra di loro era
cambiata. L'isolamento di Axl Rose era iniziato.
I
Guns N’ Roses brillarono quella sera: il concerto migliore che gli ho mai visto
suonare. A tratti, Axl era anche in vena di scherzare – si scambiava il
cappello con Duff. La sua concentrazione comunque restava assoluta. Gli
Aerosmith saranno anche stati gli headliner di quel tour, ma i Guns N’ Roses
erano l'attrazione principale, e Axl era il padrone del palco. Proprio prima
dell'inizio della show, Ian Tilton aveva chiesto a Doug Goldstein se poteva
mettersi a scattare al lato del palco. “No, a meno che non vuoi mangiarti
un'asta del microfono...” Ian mi chiese se fosse uno scherzo. Lo assicurai che
non lo era.
I
Guns N’ Roses mandarono in visibilio il pubblico texano. Di fianco a me, nella
zona del mix al centro dell'arena, c'era Tom Araya degli Slayer, con un braccio
rotto e una birra nella mano buona. Persino nelle pause tra le canzoni doveva
urlarmi nelle orecchie tanto era il casino che faceva la folla. Buffo che Araya
fosse lì. Solo 18 mesi prima, ero andato a LA convinto che i Guns N’ Roses non
fossero niente rispetto agli Slayer. E adesso i GN’R erano a tutto un altro
livello.
I
Guns N’ Roses erano un prodigio. Avevano il mondo ai loro piedi. Ma il loro
enigmatico cantante si stava già ritirando in un mondo tutto suo.
La
fama può dare alla testa, certo. Quel giorno in hotel, Izzy, Slash, Duff e
Steven appena arrivati nella hall erano stati circondati da un gruppo di
preadolescenti. Izzy sogghignava mentre firmava autografi: “Magari pensano che
siamo i Bon Jovi”, mi bisbigliò nell'orecchio. Pochi secondi dopo, i ragazzini
corsero via. Izzy sembrava perplesso, finché realizzammo dov'erano andati –
dall'altro lato della hall, tutti intorno a un'altra celebrità che era appena
arrivata: il supereroe dell'A-Team, Mr. T.
Se
mai i Guns N’ Roses avessero avuto bisogno di una lezione sulla natura
capricciosa dello showbiz, la ricevettero proprio in quella hall.
Commenti
Posta un commento